INGEGNERE: “buongiorno Mario! Cafferino grazie!”
Mario non mi risponde.
“tutto bene Mario? Come la va?”
Mario si gira, ruota la tazzina dei soliti 180 gradi.
MARIO: “ Voeuja de lavorà saltom addòss che mì me spòst” ma “Tut ben! Ingegner!”
Mario lo vedo tutti i giorni ma non so se l’ho mai guardato prima. Ogni tanto veniamo qui a prendere il caffè anche con lei, ormai siamo in confidenza col Mario. Non mi parla più soltanto coi detti milanesi anzi mi parla anche nella lingua sua perché Mario milanese non lo è manco per niente
MARIO: che mio padre quando è arrivato si domandava Perché non trovava la casa in affitto. Ca papà sapeva appena leggere ma capiva ben quiru ca era scrittu. VIETATO L’INGRESSO AI CANI E AI….! Ca poi lui ci schirzava, dicia ca cani e terroni si sumigliavano per il pelo. ca me parlava solu in calabrise. E più iu ci dicia ca eravamu a Milanu e chiù papà mi parlava strittu, nu dialetto strittu. E chiù mi parlava strittu e chiù iu m’incazzava, picchì iu non vulia fà come ha fattu lui ca s’è sempre fatto riconoscere mienzo a tutti, e chiù mi parlava terrone e chiù iu studiava il milanes, i detti, i proverbi le canzuni milanesi! Mangiava, respirava, camminava milanese. Il Mario, mi conosco tutti i detti milanesi. Piutost che nient l’è mei piutost!
INGEGNERE: Questo è Mario. Adesso quando lo guardo nei suoi occhi nei suoi gesti vedo tutta la sua forza. Tutta la sua determinazione, tutta la sua voglia di essere sempre AL TOP, direbbe lui.
Lo guardo e poi…quel giorno guardo la tazzina
Rovesciata sul piattino, il caffè che prende spazio sul bancone. Chiedo “scusa Mario”, ma la tazzina continua a saltellare sul piattino, così il cucchiaino e la pozza di caffè che trema e i miei piedi, le mie gambe come se la terra vibrasse, come se fosse scossa da pesanti colpi, come se fossero tornati i giganti, un esercito di giganti…
Mi affaccio, non vedo nulla. I colpi sempre più forti, presenti. Via Gonzaga, arrivano. Creature ataviche, dalla vita in su sono uomini a tutti gli effetti: capelli in ordine, sbarbati finemente, hanno le giacche fatte da microcip, piccoli cortocircuiti sprigionano bagliori di luce, i volti non accennano sorrisi, lo sguardo vitreo. Dalla vita in giù non esseri umani non esseri animali solo un grande timbro in lega di carbonio si congiunge a ciò che di umano resta. Si muovono in branco, saltano, assieme. Li riconosco è L’ESERCITO DEGLI ACCRIBBIO.
Lascio tutto lì nel bar e inizio a correre. Sono dietro di me. Ho solo una possibilità: attraversare la piazza in diagonale puntando direttamente i nostri uffici. Supero cordoli, marciapiede. Ora la zona più difficile: il giardinetto. Respiro e vado. Salto le tre siepi. Col quarto salto mi aggrappo al monumento dedicato ai carabinieri, mi do lo slancio e atterro di fronte Palazzo Generali. Bivio temporale: ascensore o scale. Il primo è sempre occupato. Quindi scale. Due a due, tre a tre, quattro a quattro non lascio neanche il tempo che i piedi poggino a terra. L’ultimo corridoio e mi sento Mennea, Michael Johnson. Ce la faccio! Pochi metri ancora. Spalanco la porta e urlo: “COLLEGHI! ATTENTI CI SONO GLIIIIII/”
Cambia, si rende conto che sono già lì
I cari amici e stimati colleghi ACCRIBBIO.